Ta-tan. Il rumore secco che fa il pesante timbro metallico sul passaporto per me é sempre stato il suono della libertà. L’agente della dogana all’aeroporto di Newark, che mi ammette ancora una volta in America, ha indosso la divisa con sulla spalla il distintivo a stelle e strisce ed appoggiato alla sedia un giubbotto con il distintivo degli Yankees. Appena dopo i controlli mi sorride ancora la foto del Presidente Obama, ho immaginato con orrore per un secondo se a sorridermi da quella parete fosse stato Romney. In appena due settimane è successo di tutto, pensavo poco fa sorvolando il Jersey innevato con le sue casette di Paperino che dall’alto parevano di zucchero e con i campi ancora inondati dalla furia di Sandy. Di tutto è successo; il matrimonio con Ollie per le vie di Brooklyn, l’azzurro accecante di Antigua, uragani e tempeste devastanti, le elezioni del presidente, penso ancora qui nel bus che attraversa il Lincoln tunnel e penetra silente dentro una Manhattan insolitamente tranquilla. È bello essere di nuovo a casa.