Gli occhi profondi e taglienti della ragazza nera in fila sono il primo sguardo ad incuriosirmi in questa mattina di tardo inverno che si trascina lungo un marzo umido. Il campionario umano che affolla gli uffici della motorizzazione di Brooklyn è un fantastico scorcio di America. Quella più genuina e popolare, quella che scalda l’animo. L’impiegata jamaicana si tiene i dreadlock stretti in una larga fascia e con un sorriso gentile tra mille lentiggini mi porge i documenti da siglare per il test scritto della patente di guida dello stato di New York. A trentasei anni, diciotto anni dopo quella patente che ti faceva sentire grande, oggi mi ritrovo a vivere le emozioni di quel tempo lontano, qui nel Nuovo Mondo, sentendomi di nuovo ragazzo. Mentre questi pensieri sfumano mi ritrovo seduto con il questionario ed una matita tra le mani nell’aula, i miei compagni sono una donna araba con il velo ed il capo chino sul foglio, un uomo di colore con i vestiti troppo larghi che legge a voce alta le domande dei quiz ed un giovane ebreo con le treccine e lo sguardo assonnato. Alzo gli occhi e scorgo un cartello appeso al muro che annuncia che gli esami si possono sostenere in una decina di lingue, anche bosniaco, italiano ed albanese. Compilo le mie domande in inglese e le consegno alla signora allo sportello che mentre mi fa la foto ci tiene a chiacchierare del tempo; mentre attendo l’esito del test, un ragazzo afro di diciott’anni affianco a me mi confessa un po’ preoccupato che lui è al terzo tentativo. Incrocio le dita ed aspetto che venga il mio turno dopo la ragazza latina con la giacca rossa che l’impiegata chiama Edna. -Sir- mi fa la donna allo sportello, mentre Edna si allontana -Zero errors, you passed-. Che gioia.